Cavaliere, tecnico, speaker televisivo: in una parola, Emilio Puricelli. Classe 1955, ha avuto una brillante carriera agonistica costellata di grandi successi. Sotto la guida di istruttori del calibro di Nelson Pessoa, Henk Nooren e Franke Sloothaak acquisì le conoscenze tecniche che gli permisero di raggiungere i massimi livelli di questo sport. Nel 1985 è stato parte della squadra azzurra che vinse la Coppa delle Nazioni a Piazza di Siena. Purtroppo il fisico non gli ha permesso di continuare la carriera agonistica. Così Emilio Puricelli ha vestito il ruolo di tecnico. Sotto la sua guida (e quella di Markus Fuchs), nel 2009 l’Italia ha vinto la medaglia d’argento al Campionato d’Europa di Windsor. Successivamente ha preso sotto la sua ala il settore giovanile, che grazie alla sua guida ha vinto tre medaglie d’oro ai Campionati d’Europa. Negli anni Emilio Puricelli ebbe poi il piacere di commentare i concorsi internazionali di massimo livello per diverse emittenti televisive, facendo entrare nelle case di tutti un po’della sua cultura.
Signor Puricelli, che cosa è importante insegnare da subito ai ragazzi?
«Prima di tutto è fondamentale che i giovani abbiano passione per il cavallo e tanta voglia di imparare. Senza questi due elementi è molto difficile andare avanti. Poi fin da subito bisogna aver voglia di impegnarsi, di acquisire una certa cultura equestre e lavorare bene per apprendere i fondamentali…»
Quali sono i fondamentali dell’equitazione?
«La prima cosa è l’assetto. Questo ci permette di stare bene in sella e quindi di essere davvero insieme al nostro cavallo».
Come deve essere il buon assetto?
«Il buon assetto contempla il tallone basso e la punta del piede leggermente aperta. Il cavaliere deve sedersi bene avanti nella sella con le spalle aperte, lo sguardo alto, i gomiti vicini e le mani davanti a sé, appena sopra al garrese del cavallo».
Perché la punta leggermente aperta?
«Perché in sella il cavaliere ha principalmente due punti di contatto con il cavallo: i glutei, motivo per cui è importante sedersi bene in sella, e l’interno del basso gamba, dal polpaccio in giù. Se la punta è leggermente aperta, l’interno della caviglia si avvicina bene al cavallo e il cavaliere riesce a usare bene i comandi. Ed è per questo che non bisogna stringere le ginocchia come ci insegnavano 50 anni fa: in quel modo la gamba rimane rigida e si crea un assetto completamente diverso».
E una volta appreso il buon assetto?
«Sicuramente dipende dal cavaliere, dal cavallo, dal loro feeling e da cosa vogliono fare, ma di certo bisogna imparare da subito a lavorare in piano. È fondamentale, anche se in Italia è un argomento piuttosto trascurato. Ma tralasciare il lavoro in piano è sbagliato: con un cavallo allenato, in equilibrio e agli ordini, diventa tutto più facile».
Cosa è importante nel lavoro in piano?
«Bisogna pensare a migliorare la flessibilità e l’elasticità di un cavallo. Per quanto riguarda la flessibilità è utilissimo il lavoro su due piste. Spalle in dentro, spalle in fuori. Ma anche cessioni alla gamba e appoggiate. E questo va inteso come esercizio di stretching del cavallo-atleta prima del lavoro intenso. L’elasticità invece si ottiene quando il cavallo, proprio come un elastico, allunga, accorcia e gira su richiesta del cavaliere. E questo è quello che ci serve in percorso, perché il tracciato non è tutto dritto. E così si ha un cavallo morbido, che si distende verso l’imboccatura, che si allunga e si riunisce. Questo è la base».
C’è un esercizio che lei fa fare spesso a suoi allievi?
«Una volta che si hanno le basi del lavoro in piano si può cominciare con le barriere e i piccoli salti. Per esempio si possono mettere due barriere a 15-16 metri. Con questa distanza si possono mettere 4 tempi in avanti, 5 regolari o 6 corti. Perché se il cavallo è alla mano e in equilibrio si possono mettere tutte le falcate che si vogliono.
Oppure un classico esercizio è quello che chiamiamo “orologio”: si mettono quattro barriere o piccoli salti ai quattro punti cardinali e si esegue in circolo. Anche in questo caso si possono mettere 4, 5 o 6 tempi di galoppo, a seconda dell’ampiezza della falcata e della traiettoria, che può essere più interna o più esterna. E qui si impara a mantenere il ritmo e a gestire la linea.
Sono esercizi di tecnica e di rapidità, di esecuzione mentale del cavaliere, di controllo del cavallo. E vanno bene per tutti, sia per chi salta le 110 sia per chi salta i Gran Premi».
Lei anni fa commentava in televisione i concorsi di massimo livello internazionale. Cosa le ha lasciato quest’esperienza?
«Lì si vede lo sport ad altissimo livello. Gli errori sono pochissimi e la qualità del lavoro è eccezionale. Si nota anche la tecnica, l’assetto… le finezze insomma. Quando guardi loro pensi a quelle volte in cui forse hai tralasciato qualcosa. Quando invece l’obiettivo è sempre quello di cercare di migliorarsi, di cercare la perfezione. Ma poi ti rendi conto che la perfezione non esiste. Perché anche i campioni commettono degli errori. Anche in Coppa delle Nazioni o in Gran Premio. Errori piccolissimi, certo, ma ci sono. Però sono il risultato di grande lavoro e di equilibrio con il cavallo. E questo ti apre gli occhi e ti da motivo di pensare che, in fondo, non si arriva mai».
Quel è la lezione più importante che lei ha imparato dalla vita?
«Di lezioni ne ho prese tante… quando pensavo di sapere qualcosa e ho capito che avevo ancora tantissimo da imparare.
Nel 1980, grazie al cavalier Orlandi, andai a montare da Pessoa. Lui metteva degli esercizi con delle linee e delle difficoltà tecniche che non avevo mai visto. Con me c’era il povero Guido Dominici, un grandissimo cavaliere… e nonostante fosse lì già diverso tempo, anche lui come me faceva fatica. Perché Pessoa apparteneva ovviamente a un’altra scuola, molto diversa da quella a cui ero abituato in Italia. All’epoca avevo 25 anni ma avevo già vinto una Coppa delle Nazioni, a Madrid nel 1976. E credevo di saper fare qualcosina. E invece incontrai moltissime difficoltà. Ma imparai anche tantissimo.
Nel 1982 poi ho iniziato a lavorare con Henk Nooren e sono rimasto con lui fino al ’93. Poi in quell’anno ho iniziato a montare per San Patrignano e su richiesta del fondatore Vincenzo Muccioli, sono andato a lavorare da Franke Sloothaak. Lui però appartiene a una scuola diversa ancora. Diversa da Pessoa e diversa da Nooren. E quindi di nuovo ebbi delle difficoltà. Ma, ancora una volta, imparai moltissimo.
La lezione è questa: coi cavalli credi sempre di aver capito qualcosa, ma la verità è che non si finisce mai di imparare. L’importante è essere nelle mani giuste. E io lo ero: Nooren, Sloothaak, Pessoa».
Che consiglio vorrebbe dare ai ragazzi che vogliono portare avanti questo sport?
«Il consiglio è molto semplice, è quello di avere la voglia e l’umiltà di continuare a imparare. Se possibile di avere una persona valida di riferimento, che dia i consigli giusti al momento giusto».